Sale parto, poche e insicure: scatta la protesta

Redazione

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Sale parto, poche e insicure: scatta la protesta Medicina

Queste vacanze di Natale hanno fatto parecchio discutere l’opinione pubblica per un tema che vorremmo non accadesse mai, soprattutto nel 2016 ed maggior ragione in un Paese che si ritiene moderno e industrializzato come il nostro. Eppure le morti da parto continuano ad affliggere il nostro Paese, e in un certo senso una delle ragioni che propendono per la propagazione del fenomeno è quella che vede molte italiane costrette a partorire in posti angusti, stretti e neanche bene attrezzati.

L’allarme è stato lanciato da ginecologi ed ostretiche che lamentano una situazione ormai divenuta insostenibile: in Italia sono 128 le strutture che fanno meno di 500 parti l’anno, e che in quanto tali andrebbero chiuse poiché è questo ciò che stabilisce l’accordo Stato-Regioni ratificato nel 2010. La chiusura di tante sale parto non farebbe altro che provocare caos nei cittadini che si ritrovano a dover fare i conti con liste d’attesa sempre più lunghe, con le strutture ospedaliere strapiene e magari anche con chilometri di distanza da percorrere pur di trovare il primo posto utile in cui partorire. Per questo motivo le società scientifiche a cui fanno capo medici e ginecologi hanno dichiarato lo stato di allerta, seguendo, di fatto, lo sciopero delle sale parto che era stato indetto un anno fa.

Sale parto: cosa prevede l’accordo Stato-Regioni del 2010

L’accordo varato nel 2010 tra lo Stato e le Regioni d’Italia è un documento programmatico all’interno del quale sono enunciate le linee guida alle quali le strutture sanitarie dovevano e devono tuttora attenersi per garantire la sicurezza durante i parti. Sono molti i presidii che hanno applicato le direttive in questione, mentre tante altre strutture si sono ostinatamente poste contro tentando di prendere tempo.

Il documento che prende il nome di “Linee di indirizzo per la promozione ed il miglioramento della qualità, della sicurezza e dell’appropriatezza degli interventi assistenziali nel percorso nascita e per la riduzione del taglio cesareo” prevede diverse cose che vengono contestate da medici, ginecologi, ostetriche e anche da una buona parte dell’opinione pubblica.

Il punto più controverso riguarda la chiusura dei “punti nascita con un numero di parti inferiori a 500”, i quali vengono ritenuti privi di una adeguata copertura medico-ostetrica, anestesiologica e medico-pediatrica. Strutture di questo tipo rappresentano il 30% del totale e sono particolarmente diffuse nell’Italia centrale e meridionale, e vengono poste sotto la lente di ingrandimento poiché ritenute oltre che non sicure, anche particolarmente dispendiose e inefficienti (risulta infatti in queste piccole unità vengano eseguiti il 50% dei cesarei in più rispetto alle unità più grandi).

Per queste ragioni, afferma il documento, sarebbe da ritenersi necessaria una forte razionalizzazione delle spese anche e soprattutto mediante la riduzione progressiva dei punti nascita aventi un determinato numero di parti annui. Il documento spiana la strada anche verso l’integrazione dei servizi tra territorio ed ospedale, verso l’istituzione di percorsi assistenziali differenziati da mettere in campo mediante i consultori, e l’utilizzo di una cartella gravidanza-parto-puerperio che sia integrata tra territorio e ospedale. Contestualmente a ciò, il documento ratificato dallo Stato e dalle Regioni dichiara di voler promuovere strumenti che inducano a una maggiore comunicazione tra le unità ospedaliere e la diffusione di raccomandazioni e strumenti che permettano una formazione completa degli operatori.

Piccoli presdii, un problema anche di medicina difensiva

Un altro problema che si riscontra nei piccoli punti nascita riguarda il tema della medicina difensiva: il personale medico che si ritrova ad operare in queste unità ristrette spesso entra in contatto con delle condizioni di lavoro non idonee o quanto meno non sufficientemente attrezzate e, proprio per questo, tende ad essere disincentivato a prestare servizio in questi presidii minori. Del resto in caso di problemi di mala sanità, si ritroverebbe di gran lunga meno tutelato dalla sua struttura ospedaliera rispetto a quanto avverrebbe se problemi di vario genere accadessero in un complesso più grande e consolidato.

Pur di non far fronte alle spese delle assicurazioni sulla professione, questi medici preferiscono rinunciare ad esercitare la professione nelle strutture più piccole generando, di fatto, un circolo vizioso che vede i piccoli presidii sempre meno attrezzati e sempre più deboli in fatto di professionalità.

Ma professionisti del settore e opinione pubblica lamentano un errore di valutazione che si sta compiendo: siamo proprio sicuri che tagliare le sale parto più piccole spiani la strada verso una maggiore qualità del servizio sanitario? Anziché sfoltire e creare enormi disagi, non sarebbe forse il caso di spendere denaro, energie e idee per razionalizzare le spese e rendere più efficienti i presidii tanto piccoli quanto più grandi? Il dubbio aleggia ancora, ma nel frattempo in Italia stanno progressivamente chiudendo i battenti tutte quelle unità che non si sono ancora adeguate alla normativa introdotta con l’accordo Stato-Regioni del 2010 e la polemica, come solitamente accade su temi tanto caldi come questo, non può che divampare.

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